La Verna Assisi - Ultima Parte - Parrocchia Sturno

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La Verna Assisi - Ultima Parte

Pellegrinaggi




I nostri pellegrini con   Patrizia, la guida turistica della Val Tiberina


Città di Castello, 18 maggio 2015


Quando al mattino presto, lasciata l’Antica Canonica, ci rituffiamo nella città le strade sono deserte, in ogni caso riusciamo a trovare le indicazioni per raggiungere il sentiero, ricordando bene quanto ci aveva raccomandato Patrizia: fare colazione prima di uscire dall’abitato, il primo e unico punto di ristoro, sul percorso, lo troveremo un paio d’ore dopo. Troviamo pertanto un bel bar-pasticceria dove ci rifocilliamo a sufficienza, io ne approfitto anche per fare un bancomat ad uno sportello che sta nei pressi. Anche questa giornata sarà molto dura, siamo consapevoli e rassegnati, cammineremo quasi sempre sull’asfalto e sotto il sole rovente, in compenso troveremo almeno tre luoghi dove potremo rifornirci di acqua potabile, una grande fortuna questa, date le circostanze, di cui ringraziare il Cielo sopra di noi! L’acqua per un pellegrino è un elemento indispensabile, una borraccia piena d’acqua diventa la compagna inseparabile e preziosa, una fontana sulla strada è come un braccio caritatevole teso verso chi ha bisogno: io, sin dal mio primo pellegrinaggio in terra spagnola, ho imparato a bere a qualsiasi fontana che trovo sul mio cammino, anche se non ho sete, anche se ho appena bevuto, anche se ho la borraccia piena, passare dritto e rifiutare l’offerta di quel braccio mi sembra una mancanza di rispetto, un gesto di ingratitudine e di indifferenza da parte mia. La strada è lunga e neppure molto trafficata, di tanto in tanto, pietosi alberi allungano verso di noi la loro refrigerante ombra, il caldo è ancora sopportabile quando verso le 9,30 giungiamo all’unico bar tra noi e Pietralunga. Sostiamo a piedi nudi sull’erbetta che ben rasata fa da sponda ad un ruscello che, proprio sotto di noi, crea una piccola cascata, poi ci facciamo preparare il nostro pranzo, due panni al salame e formaggio.  Infine ci riforniamo di acqua, ci dissetiamo e dopo una nuova rinfrescata riprendiamo a camminare. Adesso il sole è più sfacciato, c’è anche meno ombra sulla strada, dopo un’ora troviamo una deviazione, la accettiamo con sollievo in quanto lasciando l’asfalto passiamo su di una stradicciola in terra battuta che comunque subito si impenna ma dura poco perché dopo poco più di un chilometro ritorniamo di nuovo sull’asfalto della strada provinciale di prima, sempre meno ombra e sempre più caldo, adesso il gioco si fa duro e solo i duri… Per fortuna che dopo circa un’ora di supplizio, dopo aver superato l’incrocio per Pietralunga, ad un altro incrocio ci imbattiamo in una bella fontana in pietra rosa, all’inizio sembra un miraggio, grazie a Dio e a Francesco non lo è, anzi dal suo rubinetto opportunamente azionato sgorga una fresca, limpida e mai tanto “sorella acqua.” Acqua, semi di zucca e frutta secca confortano il nostro corpo mentre traiamo sollievo anche mentale liberando, per una scarsa mezzora, i nostri poveri piedi dalla morsa degli scarponi roventi.La strada è ancora lunga, ora ci vuole più di un’ora per giungere alla Pieve dei Saddi, una località molto importante dal punto di vista storico-religioso. Peccato che quando vi giungiamo, nonostante le rassicurazioni, evidentemente errate, la stessa sia chiusa. Impariamo troppo tardi che per trovare qualcuno e poter visitare questi luoghi sperduti sarebbe stato meglio telefonare ed avvertire chi di dovere del nostro arrivo. In ogni caso non ci perdiamo d’animo, all’ombra della Pieve ci liberiamo ancora una volta degli scarponi, a piedi scalzi sul prato ci rinfreschiamo e facciamo fuori il panino imbottito che abbiamo nello zaino. Sotto lo sguardo divertito di una coppia di tedeschi che invece stava sdraiata al sole nella incoscienza di una inevitabile scottatura. – Sì, sì! Ridete, ridete – fa l’Antonio, certo di non essere compreso – noi rideremo stasera quando saremo a Pietralunga e voi, scottati a dovere, sarete rossi come due peperoni! Quando riprendiamo il sentiero che avevamo abbandonato un’oretta prima, i tedeschi sono già lontani, Antonio osserva la discesa davanti a noi e poi il crinale che si impenna di fronte fino a culminare con un bosco di fitte conifere. Mi guarda e poi brontola rassegnato: - Ho capito… prima ci porterà laggiù all’inferno e poi ci farà salire in … paradiso! Io lo guardo ma non rispondo – No, non ti disturbare: ho già capito! Solo un’altra domanda: lassù non c’è Pietralunga, perché è ancora lontana… quindi possiamo scommettere che ci sarà un’altra discesa e poi ancora una salita… prima di arrivare…Detto questo e brontolando ancora qualcosa che io non comprendo, si avvia lesto giù per il sentiero. La salita è durissima a quell’ora e con quel caldo infernale ma quando giungiamo nel bosco di conifere il premio, se così si può definire, è doppio: finisce la salita e con l’ombra sulle nostre teste, sembriamo rinascere a nuova vita.Sono ormai le 17,50 quando, proprio in fondo alla discesa e in località Caigisti troviamo un cartello che ci informa di essere in vista della Casa Vacanze Il Pioppo. Antonio mi guarda, io guardo lui, poi senza indugio deviamo dal sentiero, per oggi abbiamo dato abbastanza, ora siamo proprio curiosi di vedere che cosa c’è oltre quel cartello. Pietralunga? E che cavolo: mica dobbiamo morire, la raggiungeremo un’altra volta, magari domani!I padroni di casa sono due raffinatissimi insegnanti in pensione, provenienti da Città di Castello, che per diletto o solo per avere la casa sempre piena di gente, con la quale chiacchierare e crescere ancora un po’, imparare ancora qualcosa della vita, hanno deciso di mettersi al servizio di pellegrini o anche solo di turisti che hanno la fortuna o la ventura di bazzicare per queste contrade.La spesa che si affronta alla fine non vale neppure la cena che la dolcissima padrona di casa appronta, con le proprie mani e con l’amore di chi ha rispetto del cibo ed onora i propri ospiti.Le camere sono belle e spaziose, la biancheria pulita ed abbondante, i bagni nuovissimi e funzionali, i letti comodi e spaziosi, ampio e luminoso è il soggiorno/pranzo. Abbiamo l’onore di consumare l’abbondante cena assieme ai padroni di casa, la discussione è piacevole e di grande spessore, si spazia in tutte le direzioni. I nostri interlocutori sono pazienti e comprensivi, non si danno arie, sono maestri ma “socraticamente” sanno di non sapere! Siamo affascinati da questi due, sono così belli che non sembrano neppure veri: Oddio, ancora un miraggio? Siamo rapiti e resteremmo tutta la notte ad ascoltarli e dissetarci a questa ultima “fonte” di un giorno lungo e faticoso ma pieno di sorprese. Prima un guaito del cane che fa le feste a qualcuno, poi bussano discretamente alla porta. La signora va ad aprire e sulla soglia compaiono due fanciulle, una bruna, alta e slanciata, l’altra un po’ più bassa e robusta, colombiana da parte di madre e austriaca da parte del padre, l’altra tedesca-svizzera di Berna, vorrebbero impiantare nel podere le loro tende canadesi per passare la notte ormai incombente. Il professore si scusa con noi due e si apparta con le ragazze. Rita e Alina, entrambe sotto i trent’anni, irrompono sul nostro cammino. Un po’ più tardi quando lasciamo loro il posto a tavola, in compagnia dei padroni di casa, il professore le ha già convinte di passare questa notte umida in un comodo letto, meglio usare la tenda in un'altra occasione. Hanno un bell’appetito anche loro e sono provate dal caldo e dalla lunga camminata, intanto nella valletta è calata l’umidità e prima di andare a letto ci accorgiamo che accanto al caminetto a legna, acceso per cuocere la carne alla brace, non si sta poi così male.



Pietralunga, 19 maggio 2015

E’ mattina di buon ora, quando lasciamo i nostri amabili Sig.ri Pettinari e ci avviamo verso Pietralunga, bisognerà salire sul monte davanti a noi e poi ridiscendere dall’altra parte verso il centro abitato che poi ci proietterà verso Gubbio, la nostra meta odierna. Il cammino è piacevole e non solo perché abbiamo riposato bene e ci siamo abbondantemente rifocillati ma soprattutto perché abbiamo compagnia, Alina e Rita, infatti, si sono unite a noi ed almeno per oggi cammineremo tutti insieme. Si cerca di chiacchierare un po’ dl più e del meno, la discussione non è fluida, a parte un po’ di spagnolo elementare che io mastico appena, noi non conosciamo le lingue ma le ragazze si sforzano molto di capire e farsi capire. Sono due agronome che, nonostante la giovane età, grazie a progetti europei cui hanno partecipato con grande profitto, hanno maturato diverse esperienze all’estero, specialmente Rita.Alina invece da un anno a questa ha maturato altre scelte, ha coraggiosamente deciso di prendersi cura del marito vedovo e dei tre figli orfani di una sua carissima amica, scomparsa a seguito di un brutto male. Si è così trasferita nella campagna bernese, dove l’uomo è proprietario di un’azienda agricola ove alleva mucche da latte. La ragazza confessa di essere felice, anche se di tanto in tanto sente l’urgente necessità di evadere per un po’ dalla routine contadina, con il nuovo compagno ha fatto un patto, quando lei diventa inquieta, lui non deve trattenerla, deve lasciarla andare ed ecco spiegato il perché lei oggi si trovi in viaggio verso Assisi. Il percorso, salvo un piccolissimo tratto su di una mulattiera è sempre sull’asfalto, non c’è traffico sulla strada provinciale ma c’è tanto caldo, il sole picchia già forte.Quando decidiamo di fare una sosta, saranno circa le dieci, siamo anche fortunati, sul ciglio della strada davanti ad un’abitazione rurale troviamo anche una rudimentale panchina di legno. Ci liberiamo degli zaini e con l’Antonio diamo mano ai panini che ci siamo fatti preparare prima della partenza da Il Pioppo, offriamo alle ragazze quello che abbiamo ma loro rifiutando con garbo, sorridono entrambe sornione. Io e Antonio ci guardiamo ma non capiamo fino a quando Alina non tira fuori dal suo zaino un misterioso malloppo, appena lo scarta e dopo un’iniziale sorpresa scoppiamo tutti a ridere, Rita afferra un culatello di circa un chilo e lo sventola come un trofeo: Peeeppeeerepèèèè!!!! Hai capito le tedesche? Noi pane con bologna (mortadella) e loro con il culatello…quando si dice, saper vivere! Dopo aver condiviso con noi un bel po’ del salume, tagliato a fettoni con un coltello rigidamente “svizzero” originale e non falso come il mio, e riso abbondantemente, riprendiamo spensieratamente il cammino, troppo spensieratamente forse, visto che non ci accorgiamo di sei pinetti, sei piccoli alberelli, che secondo il prof. Pettinari ad un certo punto della strada provinciale dovrebbero indicarci il punto esatto dove deviare per imboccare una scorciatoia e poter così risparmiare qualche chilometro  di asfalto bollente. Quando dopo cinque o sei chilometri di strada statale, infestata di Tir, autotreni di ogni marca e ordine di grandezza, nonché da centinaia di altri sfreccianti automezzi, giungiamo nel piccolo centro di Mocaiana siamo già sufficientemente cotti, io il meno giovane sono proprio stracotto. Non ci perdiamo d’animo, però, anzi, dopo esserci rinfrescati ai servizi del primo e anche unico bar, sfilati i piedi dagli scarponi, decidiamo di concederci un premio, un bel bicchiere di Chianti a testa o meglio una bottiglia da dividere in quattro, io e Antonio facciamo i galanti, offriamo noi in ricordo del culatello generosamente fatto fuori qualche ora prima. Dopo un’oretta di riposo, ripartiamo per le due orette circa di cammino che ci separano da Gubbio, che è lì ormai davanti a noi… Sarà il vino, sarà il caldo torrido che nonostante l’ora imperversa inclemente sulle nostre teste e sulle nostre esigue forze, in ogni caso più ci trasciniamo in avanti e più la città di don Matteo e del lupo ammansito dal Santo non dico che si allontana ma non fa alcuno sforzo per venirci incontro. Per me diventa una insostenibile agonia, non mi aiuta neppure una sosta ad una deliziosa fontanina collocata alla bisogna dei pellegrini prima di entrare… anzi sfiorare la periferia. Quando, dopo indicibili sofferenze, ci ritroviamo davanti ad un discount non ho molta voglia di parlare ma, buttato giù per terra lo zaino, infilo la porta dirigendomi senza indugio al banco dei miei adorati pompelmi rosa, ne prendo alcuni, poi ritiro velocemente anche una crema idratante per lenire i bruciori delle mie gambe ustionate. Una volta uscito sul piazzale comincio a sbucciare rapidamente l’agrume e, dopo aver invitato Antonio a fare altrettanto, lo divoro letteralmente incurante del trasbordante succo rosa che mi cola giù sul petto e sulla maglietta ormai madida di sudore. Improvvisamente è come se avessi ricevuto una flebo in vena, mi sento rinascere, Gubbio bassa è ormai intorno a noi, le ragazze sono alla ricerca di un camping e ci comunicano che domani non riprenderanno a camminare ma si fermeranno a visitare la città. E’ l’ultima volta che le vediamo, ci mancherà molto la loro esuberante giovialità, il loro entusiasmo, la loro freschezza, ci avviamo verso la Parrocchia della Madonna del Prato. Don Marco è simpatico e disponibile, non è il Cardoni autore della mia guida del Camino di Santiago di Compostela e neppure suo parente.Soltanto il giorno dopo mi renderò conto di aver fatto delle scale per accedere al secondo piano della palazzina dove prendiamo posto in due letti in basso di due castelli diversi. Mentre io faccio la doccia e metto a stender in camera la biancheria, Antonio va a rifornirsi nei paraggi di una frugale cena. Rientra con un polletto allo spiedo ed una pizza da dividere in due: non sono un gran ché nessuna delle due pietanze ma a noi francamente non interessa molto, mandiamo giù il cibo più per necessità che per piacere, perché la tappa successiva si prevede ancora più dura di quella appena conclusa. Non ricordo molto di quella sera ma ricordo benissimo la mia reazione al suono della sveglia del mattino seguente…

Gubbio, 20 maggio 2015

La musichetta della sveglia, in quella placida e silenziosa alba di Gubbio, non so Antonio, ma io lo accolgo con la stessa angoscia nel cuore con la quale, durante una breve pennichella, vengo svegliato dalla marcia funebre della piccola banda sturnese che accompagna il corteo al cimitero locale, le struggenti note che Generoso strappa alla sua tromba solista lacerano le orecchie e sconvolgono il cuore… Parararà, parararà, bum! Parararà,bum!Parararààà!Bum!Con o senza accompagnamento musicale, con la morte nel cuore, ci tiriamo su anche quella mattina, anzi per strafare o soltanto per darmi un tono, trovo anche il modo per lasciare scritto un ricordo sul registro accanto alla cassettina delle offerte: Tanta sofferenza e tanta stanchezza ma ne vale sempre la pena! Quando ci si ferma, riprende subito la voglia di ripartire, di arrivare alla meta, di non distrarsi e di non farsi distrarre… Ecco la magia di una terra splendida ed il miracolo di un Santo unico, portatore di un messaggio universale. Don Marco non c’è quando lasciamo la casa. Facciamo colazione al bar del distributore di benzina, proprio davanti alla Parrocchia della Madonna del Prato, poi via di corsa verso il sentiero che si dipana poco più avanti: io lo chiamo sempre sentiero perché e segnato come tale con il Tao giallo ma, purtroppo per noi, si tratta sempre più spesso di strada asfaltata, sarà perché mancano vie alternative, sarà perché i nostri governanti, per motivi elettorali, si dilettano ad asfaltare anche le mulattiere ed i viottoli di campagna, sta di fatto che il Cammino di San Francesco, per l’ottanta per cento si snoda su strade magari con scarso traffico ma comunque asfaltate. Procede tutto per il meglio, almeno fino a San Pietro in Vigneto, qui ci dovrebbe essere una fontana per rifornirsi di acqua, nello stesso posto vi soggiorna anche un eremita il quale però non amando essere disturbato - tra l’altro che eremita sarebbe se passasse tutto il giorno a ricevere gente? - ha ottenuto una deviazione del sentiero che ci impedisce di rinfrescarci e ristorarci, quando ce ne accorgiamo ormai attraverso un fitto boschetto abbiamo raggiunto quasi il fondovalle. Qui stiamo attenti alle indicazioni di Patrizia, la guida, la quale ci aveva raccomandato: se volete evitare di passare dal castello di Biscina, ignorate il sentiero, proseguite fino al fondovalle e qui giunti svoltate a destra e seguendo il corso del fiume proseguite verso Valfabbrica, ad un certo punto imboccate una bella stradina bianca in salita sulla destra, vi porterà sulla strada asfaltata ma  interrotta che scende da Biscina, avviatevi verso destra, in tal modo risparmierete un po’ di chilometri tutti in salita e di conseguenza anche un paio di ore. Noi seguiamo alla lettera i preziosi suggerimenti, fino a quando nel lungo valle, ormai senza acqua e anche un po’ stanchi ci lamentiamo di non trovare neppure un sasso sul quale poterci sedere e riprendere fiato per pochi minuti. Improvvisamente scorgo un viottolo che si impenna sulla nostra destra, è all’ombra e ci sono anche dei sassi di media grandezza sui quali potersi sedere, li indico all’Antonio che subito devia verso queste rudimentali panchine. Sgranocchiamo un po’ di semi, muesli e frutta secca, nel frattempo io dando un’occhiata alle istruzioni di una piantina maturo la convinzione che il viottolo sul quale ci troviamo possa essere quello che ci dovrebbe portare sulla strada che scende da Biscina. Confido all’Antonio questo presentimento, lui non osa neppure per un secondo mettere in dubbio la mia intuizione e così…finiamo per sbagliare in due! Quando sfiniti e sudati, un quarto d’ora dopo e alla fine di una salita incredibilmente ripida, ci veniamo a trovare davanti ad una chiesetta che non fatico ad identificarla come quella di Caprignone... mi si gela in sangue addosso: siamo di nuovo sul sentiero che avevamo abbandonato un’ora e mezza prima e con ancora tutta la salita per il castello di Biscina che si staglia alto ed in lontananza davanti a noi… vorremmo morire ma non parliamo, nessuno apre bocca, dentro di noi imprechiamo alla sfortuna ma in silenzio. Dopo una mezz’ora di salita sotto il sole implacabile, ci ritroviamo in prossimità di un paio di case di campagna, c’è un muretto in cemento sulla nostra destra e su di esso ci abbandoniamo per cercare di riprendere fiato. Alzo la testa e sopra di noi, all’ombra di una delle abitazioni sono sedute tre persone, una donna alza un braccio e fa segno di avvicinarci a loro, con lo sguardo segnalo ad Antonio che la signora ci sta chiamando, lui alza la testa, ha ancora il fiatone e mi prega con un gesto della mano di aspettare un attimo, io intanto con un gesto della mano rispondo al premuroso invito della donna. Cinque minuti più tardi siamo finalmente anche noi all’ombra della casa, salutiamo e la donna ci indica un rubinetto dell’acqua nei pressi dove poter bere e rinfrescarci. Io ficcò tutta la testa sotto il getto dell’acqua, non è freschissima ma traggo subito un gran beneficio, mentre Antonio si rinfresca a sua volta io mi giro verso i padroni di casa, sono tre persone anziane, uno di loro avrà più di novant’anni ma è sveglio e sorride gentile. – Posso prepararvi un caffè?  Ringrazio e accetto senza neppure interpellare il mio socio, sono certo che lui prima di farsi quattro salutari boccate di fumo gradirà molto una bella tazza di bollente caffè. Infatti, mentre la signora si da fare con la moka, Antonio accende subito la sigaretta, io lo guardo interrogativamente e lui mi informa: - Una me la fumo prima del caffè e l’altra la fumerò dopo… - sorrido sotto i baffi, in effetti per un fumatore, il discorso non fa una grinza! I tre nuovi amici non lesinano domande, sono curiosi di sapere da dove veniamo ma soprattutto dove abitiamo, cosa facciamo nella vita, se ci piace l’Umbria, se è la prima volta che ci avventuriamo in un pellegrinaggio e così via… E’ piacevole la loro compagnia, contagiosa è soprattutto la loro serenità ostentata con un garbo e una naturalezza non comune, il panorama che si apre davanti a loro è veramente spettacolare ma anche rilassante, rassicurante, tutta natura allo stato puro, solo qualche rumore lontano e ovattato quasi come un sottofondo musicale. Li lasciamo a malincuore, ci sorridono benedicenti, forse grati al Santo di aver offerto loro anche oggi qualche minuto di svago e di compagnia. Ci hanno offerto solo un caffè e un po’ d’acqua ma noi ci sentiamo rigenerati a tal punto da consentirci di sbollire anche molta della rabbia accumulata in precedenza. Quando a metà della discesa dal castello di Biscina verso Valfabbrica e circa un’ora dopo, ci fermiamo un attimo e dividiamo l’ultimo panino, Antonio mi guarda e mi provoca: - Posso dirti una cosa? - No! Non voglio sentire niente... - Allora te lo dico lo stesso… - Faccio finta di tapparmi le orecchie, tanto già so cosa vuole dirmi… Oh! Se lo so…-Noi volevamo, oggi, fare i furbi, volevamo risparmiare strada, tempo e fatica e Lui, il Boss, quello che comanda da queste parti, ci ha puniti immediatamente: se siete venuti qui, avrà brontolato, non dovete cercare scorciatoie, non dovete cercare scuse ma affrontare i sacrifici che il pellegrinaggio comporta nella sua interezza, dovete farvi un …. mazzo così…(ampio gesto delle mani di Antonio a forma di pallone da basket) come me lo sono fatto io, e non una sola volta, quando non avevo scarponi comodi ed impermeabili, non avevo piedi fasciati in comode calze tubolari e antishock, né magliette in materiale tecnico, non avevo borracce termiche, non avevo bacchette da trekking, né mantellina antipioggia, né felpa di pile, né creme solari… ma indossavo soltanto un saio in tela di juta, portavo un ramo di legno per bastone, ai piedi nudi calzavo un paio di sandali laceri … non avevo barrette o integratori alimentari e neppure un tozzo di pane nero nella bisaccia… anzi, spesso, non avevo neppure la bisaccia!  Mentre Antonio parla mi viene un groppo alla gola, erano tutte cose che non volevo sentire ma che avevo pensato anch’io mentre poco prima sbollivo la rabbia. – Ok! Ok, ho capito… - lo interrompo – spero soltanto che tutti questi sacrifici servano a qualcosa o a qualcuno, per ora so solo che sono distrutto e non so come farò per risalire stasera verso Valfabbrica, ora so soltanto che mancano ancora otto chilometri all’arrivo ed al solo pensiero di ciò che ci aspetta mi viene voglia di sdraiarmi qui, sulla sponda di questo ruscello e dormire, dormire, dormire… Pertanto, forse sarà meglio tirarci su e ripartire all’istante. Per non pensare ai dolori di gambe e piedi o alla stanchezza quasi insopportabile cerco di distrarmi facendo tutta una serie di domande ad Antonio sulla sua famiglia, madre, fratelli, nipoti, del suo povero papà che è venuto a mancare piuttosto giovane da diversi anni. Antonio si fa prender dal racconto e va avanti per un bel po’, mi parla della madre, Temi, dei fratelli Biagio, Michele e Daniele, del povero papà, Fernando. Mi racconta di quando abitavano a Castelluccio dei Sauri, in provincia di Foggia: il padre era un sottufficiale dei Carabinieri e quindi avevano girovagato un po’ di qua e di là per la Puglia. Il trucco funziona tanto che in men che non si dica, ci ritroviamo ad incrociare la strada asfaltata che scende giù dal castello di Biscina e si dirige verso la nostra meta odierna, è deserta perché interrotta da una frana, ci verrà spiegato dopo che per assenza di fondi non è stata mai riparata né riaperta al traffico. Svoltiamo a destra verso Valfabbrica, ovviamente non incontriamo alcun automezzo ma solo un giovanotto che sta facendo una corsetta, ci informa che se evitassimo di prendere una deviazione a destra, poco più avanti, ci resterebbero solo quattro chilometri per Valfabbrica… Al “solo quattro chilometri” mi viene da ridere… il nostro interlocutore forse avrà letto in questo un senso di sollievo ed invece non sa quanto si sbaglia, sono quasi morto ma non lo dico a nessuno, se proprio dovessi tirare le cuoia preferisco sia una sorpresa per tutti! Per fortuna o grazie a Qualcuno che sicuramente non abbandona mai i suoi pellegrini, mi è rimasto ancora un po’ di buon umore ed un pizzico di autoironia. Mentre ci trasciniamo in avanti, lancio di tanto in tanto un’occhiata allo striminzito laghetto sulla nostra destra, sembra inspiegabile uno sbarramento gigantesco per una quantità d’acqua così trascurabile, eppure di torrenti e ruscelli che si riversano a valle dai rilievi circostanti ce ne sono davvero una mezza dozzina e forse più… ogni tanto mi volto indietro e, osservando il castello di Biscina che si staglia lassù sopra le nostre teste e alle nostre spalle, continuo a chiedermi perché mai siamo finiti lassù eppure le abbiamo davvero provate tutte per evitare di passare da quelle parti, come se una forza misteriosa ci avesse calamitati su quelle alture, come se dovessimo espiare una colpa ma, forse, aveva ragione Antonio, si tratta soltanto di una punizione. Già, mi viene da pensare adesso, sembra che tutte le forze dell’universo si siano coalizzate per costringerci a passare sotto quei bastioni e noi, ingrati o irresponsabili, una volta da quelle parti non abbiamo degnato il sito di uno sguardo, ironia della sorte, non abbiamo bevuto alla fontana che lì ci sarà stata sicuramente, non abbiamo sostato un attimo sulle panchine che sul ciglio della strada ci invitavano a fare una sosta, a concederci una pausa, la cosa mi torna sempre più strana e misteriosa ma, pur di non pensare alla stanchezza, mi trascino e mi lascio trascinare in queste considerazioni “a briglie sciolte”… Quando, molto tempo dopo, giungiamo all’imbocco della strada che sopra la diga, unisce le due sponde del fiume Chiascio mi rallegro per due motivi: uno perché la strada è sbarrata da un cancello serrato da un robusto catenaccio e quindi reprime qualsiasi tentazione di andare a curiosare dalla parte sbagliata e perdere ulteriore tempo, l’altro perché la strada, quella giusta davanti a noi, ricomincia finalmente a scendere. So per esperienza che ciò costituisce una soddisfazione solo a metà, in quanto dopo una discesa irrimediabilmente ci sarà una nuova salita ma, per adesso, cerco di accontentarmi. Preso da questi pensieri ci metto poco, dietro ad Antonio a trovarmi in località Barcaccia. Qui se fossimo furbi o se soltanto fossimo esperti del territorio, tireremmo dritto e saremmo in brevissimo tempo nel centro di Valfabbrica, invece seguendo le indicazioni del sentiero e superata una chiesetta, chiusa anche questa, incrociamo un gruppetto di tre case, la prima e la terza sono chiuse, dalla seconda sopraggiunge qualche rumore, siamo di nuovo senz’acqua e di nuovo assetati, ci viene naturale soffermarci, tentare di attirare l’attenzione di qualcuno, chiedere aiuto. Ecco, così, che dalle scale scende a precipizio Birillo, un setter tricolore con gli occhi dolci tutto scodinzolante pronto a farci le feste, con Antonio che subito se ne innamora. Da uno scantinato del piano terra, spunta sorridente un quarantacinquenne, capelli corti e brizzolati, sorridente, ci saluta e poi ci indica subito il rubinetto con l’acqua. – Venite da Gubbio… ed avete fatto pure il castello di Biscina? Dura, eh? E si vede – commenta scherzoso – sembrate due che sono passati sotto un tir… La sua parlata non è umbra, c’è qualcosa di familiare nel suo tono, quando confessa di essere un napoletano in prestito da queste parti, scoppiamo tutti e tre a ridere, anche Birillo si illumina come se avesse capito e volesse partecipare alla rimpatriata.Ci sediamo affranti sui primi gradini della scala esterna, abbiamo bisogno di riprendere fiato e non solo, chiedo ad Antonio quando manca ancora per il paese. Due e mezzo km., in queste condizioni, ci vorrà ancora un’ora, preferirei non pensarci ma non riesco a scacciare il pensiero, chiedo al padrone di casa se ci fosse un’alternativa a quel calvario (che il Signore mi perdoni) e  lui fa segno di no, bisognerà proprio arrivare in paese… a meno che non accettiamo un passaggio in macchina… lui potrebbe… -Non se ne parla proprio – irrompe categorico il mio compagno di viaggio – a costo di arrivare … morto… stasera… ma io il cammino non … lo macchio… per un paio di chilometri, anche se di sofferenza!  L’improvviso integralismo di questo ragazzo (si fa per dire!) mi sorprende molto, però mi fa piacere: bravo Antonio, è così che si fa… fino alla fine! -… e allora non c’è niente da fare – conclude impotente l’Antonio napoletano. Passano un paio di minuti, forse meno, ed una voce femminile, questa volta umbra doc! ci sorprende dalla cima delle scale esterne, alle nostre spalle, il marito che sta di fronte a noi, si illumina subito, come se avesse scorto la luce di una stella. – Ciao! Sono Marinella, come va? – Ci giriamo ma senza alzarci le tendiamo la mano, io come trascino le gambe, così ormai biascico pure il mio nome, in modo pressoché incomprensibile. Lei scende gli ultimi gradini, passando in mezzo a noi e va a piazzarsi di fronte, di fianco al marito. I lunghi capelli castani, con diversi fili argentei sono raccolti “a coda di cavallo (come si diceva una volta)” lei è abbronzata dal sole della campagna che, impietoso, non le ha risparmiato qualche ruga, porta gli occhiali e sopra una canotta azzurra sfodera un sorriso schietto e deciso. Ha la parlata sciolta e sicura, Marinella dimostra di non aver avuto una vita facile ma ha lo sguardo di chi si sente al sicuro e non deve avere paura di nulla.  Avverto subito di avere a che fare con una persona che ha una gran fede, mi rianimo, mi schiudo immediatamente come uno di quei fiorellini, “le belle di notte” al calar della sera. Ormai non penso più alla strada che abbiamo ancora da fare, ho dimenticato anche la stanchezza di poco prima, mi sento bene, mi sento a mio agio, non ho più la fretta di arrivare a destinazione, anzi e a dirla proprio tutta, non voglio più schiodarmi da questa casa. Cominciamo a parlare di tante cose, ci invitano ad entrare, c’è per la cucina un profumo di zuppa di lenticchie da far girare la testa, ci offrono un caffè, lo accettiamo volentieri, così Antonio subito dopo può accendere l’ennesima sigaretta, non senza averne offerta una alla padrona di casa Intanto la pentola delle lenticchie brontola lentamente sul fuoco. Parla, parla e parla, si fa quasi buio, Antonio che continua a fare le coccole a Birillo mi guarda, quasi a chiedere per quanto tempo ancora volessi ritardare la partenza, io non gli rispondo ma non intendo interrompere la donna che mi sta parlando del difficile momento che stanno attraversando, sono entrambi senza lavoro, oltre al cane e al gatto, di là in cameretta ci sono anche due ragazzi che stanno studiando. -Sentite: qui si sta bene in vostra compagnia, non vorremmo lasciarvi per nulla al mondo ma si è fatto tardi, dobbiamo fare ancora un’ora di strada, e una volta giunti in paese, cercare un posto dove passare la notte e per voi, immagino, sia già ora di cena… A meno che…Tutti mi guardano pendendo dalle mie labbra ed io, ormai senza alcun pudore, la butto lì:- A meno che voi… non decidiate di divider con noi la vostra zuppa di legumi e non abbiate un letto dove io e quest’altro sventurato possiamo passare la notte…Antonio smette improvvisamente di accarezzare Birillo che, invece, approfitta della tregua per leccargli la mano, il padrone di casa guarda la moglie con un aria di rassegnata impotenza, Marinella, calma, non si scompone neanche un po’, sembra l’unica che abbia già trovato la soluzione.-Beh, se vi accontentate, per una doccia ed un piatto di zuppa, problemi non ne vedo, ci sono anche delle uova ed un po’ di pecorino, per i letti dovreste arrangiarvi un po’, un paio di materassi ci sono ed anche due vecchie reti… ma la camera è grande e la biancheria è fresca di bucato!Antonio, il mio socio, tira un sospiro di sollievo, io guardo i padroni di casa con gratitudine, mi è andata bene anche stavolta, ancora una volta eviterò di “tirare le cuoia” strada facendo…-Evviva! Stasera abbiamo compagnia… - Valentina, tredicenne, e Damiano, undici anni ma con un fisico da futuro giocatore di rugby, irrompono festosi in cucina, per ora hanno finito di fare compiti e, dopo le presentazioni, con i telefonini a portata di mano si stravaccano un po’sul divanetto attorno al fuoco del caminetto a legna, in attesa della cena. Antonio e Marinella mettono a nostra disposizione il loro bagno per consentirci di fare una doccia veloce. Quando mi ripresento in cucina Marinella mi chiede se come secondo potrebbe andare bene un frittata ed io sfacciato acconsento a patto che con le uova fresche ci sia anche molta cipolla novella, poi ridiamo insieme sul fatto che da quando nel 2010 sono rientrato dal Camino di Santiago de Compostela, dove le “tortillas con cebollas” sono davvero irresistibili, io mangio cipolle a tutto spiano, cotte o crude che siano. La cena è festosa, ci raccontiamo un po’ della nostra e della loro vita, ricordi e speranze si mescolano tra loro, talvolta gli occhi si fanno lucidi ma noto che siamo tutti cautamente ottimisti, il futuro non spaventa e, almeno, attorno a questa tavola, negli occhi degli adulti scorgo una luce di speranza, i più giovani li vedo sereni, nonostante siano consci delle difficoltà che i genitori stanno attraversando. Anche perché i due coniugi, si coglie benissimo nell’aria, hanno un bellissimo rapporto con i ragazzi, sono teneri e premurosi, non hanno bisogno di alzare la voce con loro. Valentina e Damiano, dal canto loro sono docili ed ubbidienti, sorridono sempre, sono tranquilli ma non timidi, e fanno a gara per dare una mano alla mamma o al papà, siamo capitati davvero in una bella famigliola, semplice ed onesta come quelle di una volta, non finta o artefatta… non è affatto da cartolina del Mulino Bianco.   Il tempo vola, la stanchezza si fa sentire, ci congediamo perché la sveglia per l’ultima tappa sarà alle sette. I chilometri da percorrere non sono molti ma Antonio, il pellegrino, alle ore 14 di domani ha il treno da Assisi per Napoli, pertanto, prima arriviamo alla metà e meglio sarà. Prima di mettermi a cuccia sotto le lenzuola mi accorgo che la rete del letto è troppo molleggiata per la mia schiena malmessa, ho bisogno di dormire sul duro e con il padrone di casa improvvisiamo, grazie a due pallets di legno un bel tavolaccio sul quale poggiare il materasso. Il sonno, come tutte le sere precedenti, ci avvolge velocemente: Assisi… San Francesco… Aspettateci stiamo arrivando! Uhhh, che stanchezza…




Valfabbrica – 21 maggio 2015I
l sole ha già invaso la Barcaccia e sta dissolvendo la foschia attorno alle rive del Chiascio, quando Marinella e Antonio non vogliono assolutamente dirci quanto dobbiamo loro per il disturbo ma, soprattutto, tengono a precisare che con la nostra presenza abbiamo fatto di tutto ma non certo creato disturbo, anzi, tutt’altro! Li ringraziamo ancora e decidiamo con Antonio di lasciare un “donativo”, come si dice sui percorsi frequentati da pellegrini. Con gli zaini in spalla e dopo aver consumato la colazione preparata da Marinella, io e Antonio scendiamo le scale esterne, facendo attenzione a non inciampare in Birillo che, aggrovigliato alle nostre caviglie, sembra voglia trattenerci ancora un po’. Ci dispiace per lui ma noi siamo già avvampati di “sacro fuoco del pellegrino” e, ormai, nulla e nessuno riuscirà a fermare la nostra corsa, “sentiamo” il profumo d’incenso e “avvertiamo alle narici” l’odore intenso della cera consunta e non saremo domi se non quando avremo raggiunto il sagrato delle Basiliche (superiore e inferiore).Il cammino verso Assisi man mano che passano i minuti diventa una folle corsa, senza pause e senza soste, nonostante le pendenze proibitive del Sentiero Fosso delle Lupe nessuno dei due invoca pietà, si va avanti anche se tra qualche brontolio fino al cimitero di Pieve di San Nicolò. Qui giunti, scorgiamo in lontananza la Casa del Santo di Assisi, un pensiero ed una preghiera, poi faccio presente ad Antonio che io, durante ogni viaggio mi procuro sul percorso un sasso da portare a casa come ricordo, stavolta non l’ho ancora fatto, provvediamo all’istante vista anche l’ampia varietà di esemplari che ci si presenta davanti. Alla fontanina del cimitero riempiamo le borracce, per l’ultima volta e, giù, a precipizio, verso il Ponte dei Galli. Ormai non si brontola più, ad ogni curva, al colmo di ogni piccolo “sali-scendi” la Basilica risulta sempre più vicina, ormai non parliamo neppure più, ognuno pensa solo a far mulinare le gambe, sembra una corsa contro il tempo, una corsa a cronometro, non vediamo l’ora di arrivare e vogliamo arrivare prima possibile. Non c’è più stanchezza, non c’è più alcun dolore ai piedi o alla schiena, c’è solo il traguardo, quell’arco di trionfo costituito dal portone della Basilica Superiore. Una volta al Ponte dei Galli, c’è il monumento a San Pio da Pietrelcina e poco più avanti c’è la “Ruah” di Assisi, una preghiera per il Santo ed un pensiero per Angela Serracchioli, un ringraziamento per quanto generosamente lei ha fatto e faccia per i pellegrini che ogni giorno si riversano sulle strade di San Francesco. Ci avviamo, dopo la svolta sul ponte, verso l’ultima salita che porta alla Basilica, sono meno di otto-novecento metri di strada ma è un’impennata …verso il cielo! Antonio protesta, ancora salite! Sorrido e lui mi chiede cosa ci sia da ridere. Pazientemente gli spiego che protestare a questo punto, quando tra un quarto d’ora saremo finalmente alla metà, è davvero inutile. Poi lo ammonisco: - Pensa, fratello, che domani non ci sarà più una sveglia che suonerà, non ci sarà più un cammino davanti a te, non ci sarà più un ostello da cercare, non ci sarà più da sudare né da faticare… E allora? E allora vedrai che tutto questo ti mancherà maledettamente e tutta la gioia per aver compiuto quest’impresa sarà un po’ “appannata” dal vuoto che da domani si spalancherà davanti a te! Antonio non replica restando un po’ perplesso e pensoso, neanche per molto perché cinquanta metri dopo, davanti a noi si spalanca una porta delle antiche mura della città, una volta attraversata Porta San Giacomo (Santiago, in spagnolo, così… per caso?), sulla destra c’è un vicolo che precipita di corsa, in fondo la facciata della Basilica Superiore fa l’occhiolino davanti a noi: Ciao Francesco, ben trovato! E… grazie! Grazie per averci aspettati, grazie per aver pazientato ogni giorno accanto a noi, grazie per aver vegliato su di noi e per averci dato il Tuo sostegno nel momento del bisogno, grazie per gli incontri – tanti - che ci hai donato lungo le Tue strade sante, grazie di essere nei nostri pensieri, grazie per essere sempre presente nella nostra vita e, speriamo, in quella delle persone che amiamo.



Conclusioni: Innanzitutto tengo a fare alcune precisazioni: “Con le ali ai piedi” il sottotitolo che ho dato al racconto, non è una mia invenzione ma, piuttosto è dovuto a due fattori: uno, Con le ali ai piedi è il nome di alcuni percorsi francescani; due, è il commento di un frate della Basilica di Assisi quando, verificando le nostre “credenziali (una specie di passaporto del pellegrin, vedi foto, sulla quale vengono annotati timbri e date dei luoghi, sacri e non, ma tutti autorizzati, che si visitano o presso i quali si pernotta)” e dopo aver constatato che io e Antonio, per una serie di motivi che non sto qui a spiegare, avevamo fatto il percorso in soli sei giorni, quando abitualmente ne occorrerebbero almeno nove o dieci, il frate sorpreso e ammirato, voleva soltanto dire che noi avevamo fatto il cammino davvero come se avessimo… volato! Dopo di che ci ha rilasciato l’attestato, che avete visto riprodotto poco prima (Testimonium viae Francisci).Il pellegrinaggio è come la vita, oppure se volete, la vita è un pellegrinaggio. Come nella vita di ogni giorno anche sulle strade della fede incontriamo persone, ci accadono cose belle e cose brutte, ci sono traversie, ci sono intoppi, si raccolgono soddisfazioni, ci vengono riservate attenzioni, ci sono delle stonature, si fanno grandi sacrifici. Ogni giorno, però, ci vengono lanciati dei segni o inviati segnali, sta a noi saperli cogliere oppure fare spallucce e, indifferenti, tirare oltre senza farci caso. Nel mio pellegrinaggio “da San Michele a San Michele (Sturno-Monte Sant’Angelo)” del 2011, l’ultimo giorno e mentre salivo verso il paese dell’Arcangelo nella grotta, la mia attenzione fu attratta da un guaito, un lamento proveniente da dietro un cespuglio di rovi, restai qualche minuto in attesa, indeciso sul da farsi e fino a quando un cane bianco, un pastore maremmano, tento di strisciare per pochi centimetri verso di me, evidentemente in cerca di aiuto, io restai per un quarto d’ora a guardarlo, non sapevo che fare, tutto mi venne in mente in quel momento, soprattutto le raccomandazioni di moglie, figlie, mamme, sorelle, fratelli e di tutti quelli che avevano a cuore la mia sorte: attento ai cani randagi, attento ai ferocissimi cani dei pastori… ma non mi venne in mente San Francesco, Lui avrebbe sicuramente soccorso quella povera creatura, io invece non ne ebbi il coraggio e vigliaccamente l’ho lasciato, forse, morire di sete o magari dissanguato. Il ricordo di quella povera bestiola, da quattro anni, mi perseguita, mi torna in mente molto spesso e la vergogna dentro di me è ogni volta più insopportabile, mi avesse morso una mano o una gamba a quest’ora sarei guarito ed avrei dimenticato anche il dolore. Dal 20 maggio u.s. ho pensato spesso a quel girovagare del penultimo giorno, ho pensato a quella giornata così pesante, alle circostanze che ci hanno portato alla Barcaccia di Valfabbrica, nella casa di Antonio e Marinella, ho pensato al sorriso di Damiano e Valentina, alle feste ed agli scodinzolii di Birillo. Spesso da credente quale sono, mi chiedo se io e Antonio siamo capitati in quella casa solo per caso oppure per un disegno superiore, effettivamente quel giorno, se andate a rileggere il capitoletto, sembrerà anche a voi che una forza misteriosa ci spingesse in una direzione che noi proprio non volevamo prendere… Non credo di poter fare qualcosa per Marinella e i suoi cari ma ci tenevo a far sapere loro che ci sono, che penso spesso a loro, che sono a loro vicino. Venendo a Sturno, due settimane fa mi sono fermato a salutarli ed ho fatto conoscere loro anche Rosaria, la mia signora. Abbiamo trascorso una bellissima serata insieme, erano sinceramente felici di vederci e noi con loro, li ho incoraggiati ad organizzarsi per accogliere dei pellegrini, hanno capacità ricettiva ma soprattutto hanno tanta umanità e tanta fede. Si sta troppo bene a casa loro, i pellegrini che si riversano sulle strade della fede hanno bisogno di incontrare persone come Marinella e la sua famiglia, più di quanto Antonio e Marinella abbiano bisogno dei pellegrini. Un’altra cosa mi è rimasta in mente da questi due incontri: quando si vive con poco e con le bollette che ogni mese, una volta una e la volta dopo un’altra, ti azzannano il collo a cosa si è costretti a rinunciare? La parola “superfluo” sparisce completamente, anzi essa porta via con sé anche cose che il 95% di noi “consumisti” abitualmente ritiene bisogni irrinunciabili e non si sogna neppure lontanamente di considerare la loro assoluta artificialità. Niente cinema, niente pranzi o cene fuori di casa, nessun prodotto del bar (caffè, cappuccini, brioche, liquori o gelati), niente viaggi o gite fuori porta, niente mare né montagna, niente shopping, un cellulare in due, nessun telefono fisso, nessun profumo o deodorante, niente parrucchiere né estetista, niente televisore ovvero un vecchio apparecchio c’è ma la casa è priva di parabola e antenna, niente giornali né riviste, libri solo in prestito, soltanto  pane e biscotti fatti in casa, legumi, frutta e verdura del proprio orto, uso della macchina solo in casi di effettiva emergenza o per gli spostamenti dei ragazzi in caso di maltempo, sfruttamento di ogni opportunità di lavoro, di qualsivoglia lavoro purché onesto e possibilmente remunerato in tempi brevi. Sì, capisco, molti giustamente (come dar loro torto?) arricceranno un po’ il naso ma… tant’è: faremmo bene ad abituarci a questa realtà, mentre ci sono individui che spendono e spandono o addirittura sperperano, c’è ormai troppa gente, invece, che fa una gran fatica a vivere! Ah! Un’ultima cosa: in una casa ove mensilmente non confluisco pensioni di nonni, zii o parenti e affini… Dice Marinella:… I pensieri e i progetti ma anche i sogni devono essere espressi perché dall’Alto capiscano quanto teniamo e certe cose, insomma come diceva una mia amica ” facciamo un investimento nell’Astrale che qualcosa di buono prima o poi accadrà… e, se non dovesse accadere subito, restiamo in attesa per un po’ perché lassù nulla rimane inascoltato…” ed io, se mi guardo appena un po’ indietro, lo so per esperienza personale… Vedi, adesso sono ottimista, ho lanciato il mio messaggio e i miei pensieri a San Francesco, per intanto continuo nel mio quotidiano e vediamo… sono certa che prima o poi qualcosa succederà… Non mi sento sola!Prima di chiudere, un ultimo appunto sugli sprechi: ci dicevano che la diga di Valfabbrica, costata una marea di lire o euro di noi contribuenti, è l’ennesima inutile “cattedrale nel deserto”: sembrerebbe infatti che solo dopo averla realizzata si sarebbero accorti che una volta riempito il lago (ecco perché l’invaso oggi è vuoto), un paio di montagne la intorno, compresa quella dove sorge il castello di Biscina, avrebbero corso il rischio di scivolarvi dentro. Evviva! Bella Italia…Un grazie particolare, da parte mia, va ad Antonio: sin dal primo momento, quando ha chiesto di accompagnarmi, io non avuto dubbi sulla sua resistenza e sulla riuscita della sua impresa ma lui è andato oltre ogni aspettativa, è stato forte, coraggioso, ha preso l’impegno con molta serietà e grande entusiasmo. La sua compagnia è stata piacevole, ho condiviso con gioia le motivazioni che lo hanno spinto in questa avventura, mi ha commosso il pensiero, per gli amici e per le persone care, che accompagnava ogni passo del suo pellegrinaggio.Un grazie, adesso, a tutti coloro che hanno avuto la bontà e la pazienza di leggermi sino a qui.
Pace e bene a tutti!

Pietro

pietrofranco50@ gmail.com


 
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