Pellegrinaggio 3° Montefiascone-Viterbo - Parrocchia Sturno

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Pellegrinaggio 3° Montefiascone-Viterbo

Pellegrinaggi

Pellegrinaggio per il Giubileo della Misericordia
ACQUAPENDENTE - ROMA
Testimonianza del pellegrinaggio compiuto alle tombe di Pietro

Terzo giorno: Montefiascone – Viterbo

Sono più o meno le 7,15 quando usciamo dal Raggio di Sole, la foresteria del Convento dei Cappuccini, c’è il sole e, nonostante la biancheria sia ancora umida, la nostra prima preoccupazione è quella, fintanto che siamo nell’abitato, di trovare un bar per fare colazione, sembrerebbe infatti che la Via Francigena
ci porterà a spasso per le campagne e prima del capoluogo della Tuscia non avremo alcuna possibilità di trovare altri centri abitati. Pertanto, pur incrociando subito il nostro sentiero, proseguiamo dritti sulla strada asfaltata, infatti poco più avanti e sulla destra, c’è una specie di bar, non è un granché ma ha il minimo di cui abbiamo bisogno, Cappuccio bollente e brioche alla crema, per tutti! Ci sono un paio di avventori assieme a noi ma loro non sono un problema, il padrone del locale, un tizio sui sessant’anni, urla come un pazzo, irascibile e permaloso si infila in una filippica interminabile, tanto che noi non vediamo l’ora di uscire da quel manicomio, Giancarlo si fa fare il conto, paga e scappiamo disgustati. Subito dopo Sabina si accorge che il tizio urlante del bar, nella foga, ha calcolato brioche e cappuccio per cinque anziché per quattro, torna indietro e si fa restituire il maltolto e, pare, anche senza le scuse del barista. Inforchiamo il sentiero in ripida discesa tra casolari di campagna e campi coltivati, alcune vigne, ancora noccioleti, in breve, attraversata la S.R. 2 Cassia, ci ritroviamo a calpestare i lastroni del selciato originale della Cassia Antica. Non riusciamo a fare a meno di pensare a quanta gente abbia calpestato quelle enormi pietre in 21-22 secoli di storia, da quando cioè gli antichi Romani avevano dato inizio alla costruzione delle loro strade consolari, Appia, Salaria, Flaminia, Cassia appunto. Ogni tanto l’antica strada ricompare, sommersa e annegata dalle strade che successivamente sono state ricostruite sulle sue rovine. Circa un’ora e mezza dopo la nostra partenza, noto che stamattina camminiamo un po’ in ordine sparso. Sabina è con Giancarlo, io per conto mio e Antonio per conto suo ma un po’ più indietro, ha l’auricolare e forse starà ascoltando musica o qualcuna di quelle “gag” napoletane che tanto lo divertono. Questa faccenda di essere un po’ ognuno per i fatti suoi, in verità, non è che mi dispiaccia più di tanto, anzi! Nei due giorni passati ero alquanto inquieto, quasi ai limiti dello scatto di nervi, l’andazzo che si andava creando non è che fosse proprio di mio gradimento. Troppi schiamazzi, troppe risate, lo sforzo di cercare sempre la battuta, lo sberleffo, il doppio senso e poi troppe ed inutili perdite di tempo per cose futili, cioè per ridere o scherzare o solo per parlare guardandosi…“rint’e palle ‘e l’uocchie”... Più che un’atmosfera di pellegrinaggio, nella compagnia si respirava aria di “gita domenicale fuoriporta” se non proprio di “gita scolastica” ed io questa situazione non ero proprio disposto a sopportarla: il mio pellegrinaggio non intendevo e non intendo proprio rovinarmelo, ecco perché un paio di volte sono stato costretto a richiamare pesantemente Antonio, sperando che lui si accorgesse del disagio nel quale stavo mi impantanando ma mio cognato, a sua volta, non l’ha presa molto bene, tanto che ad un certo punto da napoletano verace, quale è, ha cominciato a fare la vittima: - Ma tu ce l’avisse pè caso cu ‘mme? – Sì! – è stata l’inevitabile e scontata risposta. Io quando avevo accettato, con un certo ottimismo, la compagnia di Antonio in questo viaggio, avevo ancora in mente il meraviglioso pellegrinaggio fatto insieme da Sturno a Pompei, lo spirito di quel viaggio mi ha accompagnato per anni, l’intesa e la complicità che erano sorte tra noi due, le ho portate sempre come esempio positivo nei tanti racconti che a quell’esperienza sono seguiti. Sia chiaro a tutti, io sono il primo ad essere felice che, oggi, lo spirito di Antonio, rispetto al pellegrinaggio di Pompei, sia migliorato e tornato quello canzonatorio e simpatico di una volta, personalmente ringrazio il Cielo che quei giorni tristi siano passati e che sia tornato il buon’umore in tutta la nostra vasta famiglia per il pericolo scampato, però ho l’impressione che stavolta si stia esagerando con una eccessiva goliardia, poco adatta allo spirito del pellegrinaggio che stiamo compiendo. Quando poi Antonio mi ha parlato del desiderio di Giancarlo e Sabina di accompagnarci in questa cammino, devo confessare che non ero molto convinto, e non certo perché per me erano degli sconosciuti, così come io lo ero per loro, ma piuttosto perché saremmo stati in quattro, ed in quattro saremmo stati in troppi. Io già in altre occasioni, sul cammino di Santiago, mi ero trovato in compagnia anche di sei o sette persone ma questa gente l’ho incontrata lì e per qualche giorno si era deciso, senza impegno, di fare gruppo. Lì, però, le condizioni erano allora e lo sono tuttora completamente diverse. Faccio solo un esempio: quando uno, dopo una pausa, rimette lo zaino in spalla, per un accordo tacito e non scritto da alcuna parte, da quel momento in avanti nessuno si permetterà di rivolgergli la parola e lui farà altrettanto con gli altri compagni di viaggio! Il tal modo si può essere in mezzo a decine di persone ma in realtà si è soli con se stessi e con i propri pensieri, le proprie meditazioni, le proprie preghiere. Io ho accettato la compagnia di Giancarlo e Sabina, allora amici solo di Antonio ma oggi anche grandissimi amici e fratelli miei, perché non mi sembrava umanamente e cristianamente giusto negare a due persone, così volenterose ed entusiaste, di poter fare in nostra compagnia questo tipo di esperienza. Tarpare le ali a questa loro speranza, a questa voglia di “incamminarsi” con noi sarebbe stato un inutile peccato di presunzione e di orgoglio da parte mia, non avrei mai potuto perdonarmi di aver ignorato una mano… due mani… tese e in attesa che io fraternamente le stringessi. Era ovvio che da soli non avrebbero mai potuto fare un cammino del genere, qualcuno avrebbe dovuto prendersi cura di loro e il destino o Qualcuno, al di sopra di noi, aveva stabilito così. Toccava a me e di questa “scelta” io avrei dovuto soltanto essere onorato, accoglierli con noi non avrebbe mai potuto essere un peso ma solo un “premio” per questo povero pellegrino, che scrive, e per Antonio. Da qualche anno a questa parte ho maturato la convinzione che la vita lancia dei “segnali” e sta a noi saperli interpretare e magari anche cogliere e non saranno di certo l’indifferenza e tantomeno la pigrizia a consigliarci di sfruttare al meglio questa opportunità, però, se uno ha Fede, appena appena un po’, credo che abbia qualche possibilità in più di riuscire a cogliere un “segno”… almeno “uno” su dieci. L’ansia di questa coppia di “partecipare” a questa avventura mi è sembrato un “segnale” da cogliere e da cogliere con gratitudine anche. Ecco perché adesso siamo qui, tutti e quattro insieme ed io farei bene a farmene una ragione prima possibile, mettendo da parte il mio orgoglio, il mio egoismo: questo pellegrinaggio non è il “mio”. Per autentico spirito di servizio, questo cammino dovrà diventare, sarà il pellegrinaggio di Sabina, di Giancarlo, di Antonio ed “anche” il mio, questo è già adesso  il “nostro” pellegrinaggio per il Giubileo straordinario della Misericordia.
Dopo una salita spezza-gambe ed una sudata memorabile, quale meritato premio alle nostre fatiche, troviamo un grosso tavolo, di assi di legno, ed un paio di panchine che ci attendono davanti ad un vecchio e disabitato casolare di campagna. La vista è splendida, alle spalle della casa rurale all’orizzonte si scorge ancora il cupolone che domina l’abitato di Montefiascone e dal lato opposto, davanti a noi ed alla fine della grande piana, si intravede la città di Viterbo, la nostra meta finale, almeno per oggi. Mangiucchiamo un po’ di frutta, avanzi che ci trasciniamo dietro, e qualche barretta di cioccolato fondente di cui, fortunatamente e previdentemente, non siamo mai sprovvisti. Quando riprendiamo il cammino ci raggiungono e ci superano anche le due ragazze francesi, ci sorridono e noi le salutiamo quasi in coro, Sabina le ignora, se potesse le strozzerebbe, la faccenda della “dame italienne… gronf… gronf…” non le è passata ancora, anzi! Le due straniere hanno un bel passo, infatti, dopo un chilometro hanno già guadagnato qualche centinaio di metri su di noi che, in verità o per un motivo o per un altro, troviamo sempre il modo per attardarci e conseguentemente perdere tempo. Antonio, nel vedere le francesi così distanti, si scuote e dice che è un’umiliazione quella che stiamo subendo, lui si sente in dovere di porre riparo: allora si fermerà quando avrà raggiunte e magari anche superate le due fuggitive! Detto fatto, parte all’inseguimento, con passo lesto e deciso, intanto in sole è già alto e fa un caldo boia, a nessuno di noi altri tre viene voglia di seguirlo in questa impresa di recupero dell’orgoglio nazionale: ma chi glielo fa fare? Dopo una mezzoretta Antonio raggiunge la coppia e la supera ma, fatti ancora un paio di centinaia di metri, si volta indietro e, scorgendoci ancora lontani, si ferma, si libera dello zaino e si rassegna ad aspettarci.
Dopo un’ora buona siamo stremati, ai bordi di un campo infestato gioiosamente di papaveri ci sono due pini mediterranei che proiettano la loro benefica ombra, ci liberiamo degli zaini, ci stiracchiamo un po’. Scorgo una sbarra di ferro che inibisce l’accesso di un viale di cipressi, mi aggrappo a questa e pratico un po’ di stretching per la mia schiena indolenzita, gli altri ignorandomi completamente si abbandonano sull’erba fresca ai piedi della conifera.
Cominciamo a fare qualche calcolo, forse mancano un paio di chilometri per la nostra meta, forse tre… se fosse in centro, cinque se invece dovesse trovarsi all’estremità opposta della città. Ci avviamo, consci che ormai il più è fatto ma nessuno di noi avrebbe mai potuto pensare alla cosa più ovvia del mondo, e cioè che i Cappuccini andassero a costruire i loro ritiri sempre nei punti più alti, forse per avere sempre la situazione sotto controllo o soltanto per soffrire nell’arrampicata un po’ più degli altri. Dopo un’ora e passa di cammino sotto il sole e tutto percorso sull’asfalto rovente di strade cittadine, alla fine di un’estenuante salita inforchiamo Via San Crispino, un ultimo strappo di duecentocinquanta metri ed eccoci giunti all’agognata meta. La signora Edy, la torinese di ieri, come promesso ci accoglie anche stavolta: - Vi giuro che qui la caldaia per l’acqua calda funziona perfettamente! – Ridiamo tutti e tre, non Sabina che, forse, ha in mente ancora il freddo di ieri a Montefiascone.
La camera è bella grande e luminosa, i letti sono ancora a castello, il bagno bello e ampio, qualcuno corre subito ad aprire il rubinetto dell’acqua calda: è proprio vero che… chi si scotta con l’acqua calda ha paura pure di…
Dopo la doccia, tocca alla biancheria, tiriamo tutte le corde a disposizione, con questo sole e questo venticello, oggi non corriamo proprio il rischio che gli indumenti restino umidi. Adesso abbiamo fame, cerchiamo un posto dove mangiare qualcosa. Proprio ai piedi della salita c’è un bar molto carino, Perché no? Preparano anche dei primi piatti oltre che a delle grosse insalatone, io con gli altri siamo combattuti tra spaghetti all’amatriciana e spaghetti alla carbonara ed una delle due ragazze, belle ed in gamba nonché gentilissime e juventine (napuletani? Tieh!) tagliando… la testa al toro… rilancia: -E se facessimo, per tutti, un assaggio di entrambe le specialità?- Non la baciamo perché lì appostato c’è un tizio, basettona lunga e bomber di pelle borchiato, che bivacca e potrebbe essere il marito… ma facciamo di tutto per farle comprendere il nostro gradimento. E’ presente anche la madre delle ragazze, una simpatica signora settantacinquenne che ci intrattiene amabilmente, è piacevole conversare con lei, non solo è simpatica ma soprattutto è una donna saggia ed intelligente. Usciamo contenti e sazi, con la promessa di ritornare anche per la cena. Una volta fuori c’è chi vorrebbe schiacciare volentieri un pisolino, io come al solito non riesco a chiudere proprio occhio dopo pranzo, opto allora per andare dal barbiere a darmi una ripulita, mi affaccio nel locale, ci sarebbero già tre persone davanti a me, tempo di attesa? Un’ora e mezza… Buonanotte! Torno su anch’io al convento, non vado a riposare ma mi metto all’ombra di un bersò nel parco, qualche telefonata, qualche messaggino, smanetto un po’ con l’Iphone, faccio un salto in chiesa. Nel tardo pomeriggio, ripasso dal barbiere, sempre tre persone, sempre lunga attesa: - Va bene! Mi sbarberò domani a Vetralla… giuro!
Quando gli amici, belli e riposati, mi raggiungono decidiamo di fare una puntata verso il centro della città, dove scattiamo qualche foto, bivacchiamo un po’ sulle scale del Palazzo dei Papi, un giro nei vicoletti, poi puntiamo decisi verso il bar preferito. Veniamo accolti a braccia aperte dalle due ragazze, stavolta però manca la nonna simpaticona, c’è invece il nipote, un ragazzino dodicenne che sta mangiando la pizza mentre guarda la TV, ancora un colpo al cuore per Antonio che, ingenuamente, si era illuso che il giovanotto fosse un tifoso del… Napoli. – Per chi? Per il Napoli? Perché è pure una squadra? – lo liquida da juventino… figlio di juventina! Io allora rimprovero Antonio: - Ma te le vai proprio a cercare? Ma guarda che non siamo ad Afragola o a Santa Maria Capua Vetere ma siamo a Viterbo e ti pare che uno a Viterbo possa tifare per il Napoli? Tutt’al più sarà tifoso della Lazio… o della Roma o, più giustamente, della Juventus…!!!  il Napoli? puah! -.Si intristisce, poverino, ma… se il mellone è uscito bianco…tu co’ chi t’à vuò piglià?Domenica 8 di maggio del 2016, quando mi sveglio è l’alba, dormono ancora tutti nella Casa del Pellegrino di Acquapendente. Completo l’apposizione del  secondo timbro sulle Credenziali, il primo timbro l’aveva apposto la sera prima lo stesso Sig. Sergio Pieri, il funzionario comunale che gentilmente aveva procurati e forniti i quattro lasciapassare o passaporti che dir si voglia. Quando torno dal bagno, c’è ancora silenzio intorno a me, ormai anche i più irriducibili hanno smesso di russare, io evitando di rientrare nel camerone dove ho dormito con Antonio, Giancarlo e altri due pellegrini austriaci, Sabina invece sta dormendo, in un'altra stanza, con due pellegrine francesi. Mi metto a fare, pertanto, un cruciverba della Settimana Enigmistica che mi accompagna sempre, in casa e fuori, compreso quando sono all’estero. Sono circa le 5,30 quando fa il suo ingresso nel cucinino la più giovane delle francesi: - Buongiorno! Sorride ma non si sorprende quando le rispondo in francese: un Bon jour Madame! lo sa augurare anche una capra spagnola! Mentre io insisto nei miei esercizi di memoria, la ragazza provvede a fare colazione: una banana, due fette biscottate con marmellata di ciliegia, un bicchiere di latte freddo. Sopraggiunge un altro pellegrino, augura il suo buongiorno e poi si mette a parlare in francese con la ragazza che, intanto terminata la colazione, sta rifacendo il suo enorme quanto pesantissimo zaino, sembra che dietro di sé si sia trascinata mezza Francia, Torre Eiffel, compresa… Dalla loro conversazione, involontariamente capto una frase: - …la dame italienne, pour tout la nuit… Gronf… gronf,..!!!  Mi scappa da ridere, non tanto per come la francese abbia mimato il “russare”della signora italiana ma, soprattutto, immaginando la reazione di Sabina quando più tardi le racconterò ogni cosa… per il momento mi trattengo, fingendo di non aver capito o di pensare ai fatti miei. Completate le operazioni, la giovane transalpina carica sulle sue gracili spalle il pesante fardello e salutando con un sorriso inforca le scale che, dal piano primo dell’ostello, la porteranno prima giù nell’androne ed infine, attraversato il massiccio portone in legno, fuori nel vicolo appena rischiarato dalle prime luci del giorno. Nel giro di pochi minuti, la cucina si rianima come un formicaio, tutti a turno danno l’assalto ai due servizi igienici, qualcuno mangiucchia qualcosa, altri si affannano attorno ai loro zaini, qualcun’altro spalanca il frigo prelevandone qualche cibaria che evidentemente aveva immagazzinato la sera precedente. Antonio porta la notizia che sul selciato della strada sottostante si scorgono tracce di pioggia, non è una bella notizia per i pellegrini ma nessuno si fa prendere dallo sgomento. Sabina è alle prese con il suo armadio (zaino) ma suo marito Giancarlo non le è da meno: chissà se metto questo o quest’altro ma… forse è meglio quest’altro ancora! E se poi dovesse piovere? sembra di essere ad una sfilata di moda… sportiva! Dio mio, pensaci tu! Ma chi me li ha mandati? Antonio! Ecco chi è stato… Se lo prendo gli taglio il collo… Mi tengo calmo, continuo a fare le mie parole crociate… Quando carichi ed impazienti di partire, siamo giù in strada si son fatte quasi le 7,00, viene ancora giù qualche goccia ma non tiriamo fuori le mantelline incerate, non si annusa aria di pioggia, forse è solo umidità della notte che viene giù (acqua…pendente?) in questo catino nel quale è stato costruito il primo paese laziale, una volta lasciate la Toscana a nord e l’Umbria, ad oriente. Dopo alcuni minuti transitiamo davanti a una basilica di stile romanico e appartenente storicamente all'ordine benedettino. È chiamata del Santo Sepolcro perché, nella cripta, è conservata una pietra macchiata di sangue che si dice provenga dal Santo Sepolcro di Gerusalemme. Percorriamo un breve tratto lungo una pista pedonale che costeggia la Cassia, svoltiamo a destra e dopo circa un chilometro ci troviamo su una strada carrareccia che si infila tra i campi coltivati, dopo una mezzora ci ritroviamo di nuovo sulla Cassia ma solo per attraversarla e inforcare un’altra strada campestre che gira tutt’attorno ad una zona industriale. Campi coltivati, a destra e a sinistra, ci accompagnano per circa un paio d’ore, non c’è un posto per sedersi né per poter appoggiare uno zaino senza impolverarlo, quando ritorniamo sulla grande arteria ormai siamo a cinquecento metri da San Lorenzo, finalmente possiamo fare colazione: brioche e cappuccino, con un’abbondante spolverata di cacao, per tutti! Una volta rinfrancati e dopo una mezzoretta di riposo, ci rimettiamo in cammino ma dopo dieci minuti dobbiamo ritornare nuovamente davanti al bar: qualche cretino (ve lo ricordate che la madre degli imbecilli è sempre incinta?) ha manomesso l’indicazione della Via Francigena, presente su di un palo della piazza, e questo gesto irresponsabile costringe i pellegrini a prendere una direzione sbagliata. Usciamo dal paesello e, finita la leggera discesa, ci troviamo di fronte ad una delle prime vedute del lago di Bolsena che sarebbe da mozzafiato se non fosse che manca il sole ed il cielo è completamente grigio. Il tempo di assaporarla appena e la Francigena si infila in una fitta boscaglia, dalla quale emergeremo poco meno di un ora dopo e sempre con vista grigia del lago. Una carrareccia poi ci porta su è giù lungo il crinale delle colline che si innalzano sul nostro fianco sinistro, infine sullo sfondo a circa un’ora e mezza di cammino compare la sagoma del castello di Bolsena. Ci imbattiamo finalmente in un tavolo e due panchine, di assi di legno, ne approfittiamo per consumare un tramezzino a testa che Giancarlo si era trascinati dietro da Villanova e che la sera precedente non avevamo consumati, preferendo andare a fare una pizza in quel di Acquapendente. Quando riprendiamo il cammino ci troviamo circondati da alcuni prati in fiore e ne approfittiamo per fare qualche foto, il sole latita ancora ma c’è un filino di luce in più. Prima di entrare in Bolsena, dalla parte alta, quella del castello, siamo costretti a tirare fuori le mantelline, solo quattro gocce ma tant’è. Alla Pensione Italia, ci accoglie una signora gentile, le camere non sono un granché ed i bagni messi maluccio ma noi siamo adesso parecchio stanchi e chiediamo solo di infilarci sotto una doccia calda e desideriamo poter indossare un pigiama o degli abiti puliti ed asciutti. Antonio, Sabina e Giancarlo optano per il pigiama, io non riuscendo a dormire di pomeriggio, scelgo di andare a fare un giro. Proprio sotto la pensione, sempre in Via Cavour la mia attenzione viene attratta da un piccola e alquanto strana insegna, a modo suo un po’ particolare: Le Sorgenti - Libr’Osteria. Infilo incuriosito la porta-vetrina del locale, sulla sinistra è allocato un minuscolo bancone e poi un lungo corridoio, metà mercato, metà libreria, un bazar… pieno di ogni cosa ma soprattutto di tanti tantissimi libri negli scaffali o in vendita, offerta speciale, nelle ceste di vimini ed altro genere di contenitori. Mi metto a curiosare, scelgo un libro e poi, uscendo dalla porta sul retro del locale, mi ritrovo in un grazioso cortiletto, ricco di piante e fiori. Ci sono tre o quattro tavolinetti, ne scelgo uno e mi abbandono stancamente su una delle sedie, comincio a sfogliare il libro. Dopo un po’ un giovane tutto sorridente mi raggiunge e chiede se può essermi utile: - Una birra, possibilmente scura, per favore! – Un’artigianale, potrebbe andare bene? - domanda gentile, io annuisco convinto. Passano cinque o sei minuti e mi viene servita la birra con un piatto di fette di pane tostato e ben oliato. Il giovane nota la mia sorpresa e mi informa, garbatamente, che l’olio è di loro produzione, il profumo  è davvero delizioso e anche la birra ha un ottimo aroma. Sono ormai le sei e trenta del pomeriggio quando il trillo del cellulare mi distoglie dalla lettura, è Antonio: loro sono già fuori sulla piazza grande della cittadina lacustre. Pago il conto, acquisto anche il libro, un po’ di peso in più nello zaino ma il testo mi intriga molto e non intendo rinunciarci. Quando raggiungo gli amici, subito mi accerchiano per curiosare il titolo del libro: Le radici della prostituzione (sottotitolo) La matrice di tutte le violenze è la violenza dell’uomo sulla donna. La serietà del testo che sviscera l’argomento dal punto di vista storico, sociale e antropologico non giustifica affatto le risate, le allusioni e i commenti dell’allegra brigata. Decidiamo, quindi, per una visita alla chiesa di Santa Cristina e alla Cappella del Miracolo. La storia racconta, infatti, che nella seconda metà del secolo XIII, un prete boemo, tale Pietro da Praga, che pare nutrisse molti dubbi sulla transustanziazione ovvero sulla reale presenza del Corpo di Cristo nel pane e nel vino consacrato, durante la celebrazione della messa, allo spezzare dell’ostia abbia visto sgorgare da questa alcune gocce di sangue che macchiarono non solo il corporale di lino ma anche alcune lastre di marmo che, a loro volta, rivestivano il pavimento nel percorso tra l’altare e la sacrestia, luogo nel quale aveva cercato rifugio il sacerdote non solo confuso ma sicuramente molto scosso ed emozionato dall’evento. Nella cappella sono tuttora conservate le lastre di marmo, mentre il corporale di lino è conservato con l’ostia macchiata di sangue nel Duomo di Orvieto. Il papa Urbano IV, dopo aver fatto le necessarie verifiche, dichiarò la soprannaturalità dell’evento e, a ricordo perenne per tutta la cristianità, proclamò la solennità chiamata Corpus Domini: correva l’11 agosto 1264. Dopo la visita al luogo sacro ci portiamo verso l’affollato ed elegante lungo-lago e, alle prime luci del tramonto, ci infiliamo nell’Osteria del Contadino, dove il proprietario ed un cameriere, vestiti con il classico paio di pantaloni di velluto a coste larghe, sorretti da coloratissime bretelle sopra una camicia di flanella a quadri colorati e con sul capo un cappello di paglia (da veri contadini) servono delle succulente pietanze dell’ottima cucina viterbese: dopo tanta fatica la giusta e meritata cena! Alle ventuno e trenta siamo già in camera, adesso la stanchezza si fa davvero sentire. A domani! Pietro

1° giorno: Acquapendente-Bolsena
2° giorno:Bolsena-Monterfiascone
4° giorno: Viterbo-Vetralla

 
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